ABBAZIA FLORENSE DI SAN GIOVANNI IN FIORE
Il drago, l’uomo e il talento
L’uomo, che era stato un uomo ma che non lo era più, trasse un profondo respiro, ispirando consapevolezza e un soffio di paura. Non temeva il dolore fisico. Ne aveva dimenticato il colore e il suono. Ricordava, vagamente, che un tempo aveva sofferto, ricordava la fame che squassa, ricordava la pelle morbida dei piedi che sulla sabbia incandescente si sfalda come cera dura su piastra rovente, ricordava le dita ghiacciate, nere e bianche e ocra che in inverno si staccavano dal resto del corpo come rami secchi spezzati dalla neve, ricordava… ma erano solo ricordi. Ricordi di un dolore materiale che non gli apparteneva più. Cos’era dunque quella fitta al cuore, quella stilettata che gli mozzava il respiro e lo inquietava?Perché, sulla soglia dell’Abbazia Florense, l’uomo che era stato un uomo ma che non lo era più… indugiava? Timore? E di cosa? Il drago dormiva ancora. Se si fosse svegliato se ne sarebbe accorto. Se ne sarebbero accorti tutti. Il drago dormiva, ancora. Non c’erano dubbi. Ma lui lo doveva vedere. La promessa fatta al monaco lo vincolava. Non erano, tuttavia, le scale fisiche e metafisiche che si appresta a scendere ciò che scuoteva l’essenza – la parvenza avrebbe detto lui – di anima che quel corpo, che fu di carne, ancora cingeva. Alzò gli occhi al cielo, cercando una benedizione, trovando solo la sua maledizione. Nel farlo ricordò il tempo in cui, da quel punto, la visione del cielo gli era preclusa dal nartece. L’assenza di una presenza che allora era al suo fianco gli sublimò una spiegazione al suo cuore dolorante e in tumulto. Nostalgia. Era nostalgia. Sorrise, di sé prima e del dono del sorriso che si era concesso, poi. Con passo sicuro di chi è fedele a sé stesso, coerente nel torto e nella ragione, entrò nell’Abbazia, si segnò, perché lui continuava a considerarsi un uomo di Dio, anche se Dio non lo considerava più un uomo o null’altro. Chiuse l’occhi e iniziò a camminare. Conosceva il percorso a memoria. Mentre la materia intorno a lui si rarefaceva arrivò alle scale che nessuno, tranne lui, aveva sceso negli ultimi secoli. Continuò a tenere gli occhi chiusi e a ogni passo indugiò. Il fetore stantio di peccato, pentimenti, rabbia, sangue, disperazione che gli invase le narici gli comunicò che la sua discesa era terminata. Ora, e solo ora, poteva aprire gli occhi. Il Drago Magnus era lì. La luce rossa che irradiava la sua aura permetteva di cogliere alcuni dettagli della bestia. Alcune teste e la coda sulla quale l’animale era accucciato. Dormiva e nel sonno rideva. Cosa sogna il Drago dell’Apocalisse? Cosa lo diverte mentre attende la fine di ogni cosa? Il ricordo del passato o la prospettiva dell’ultimo futuro? Domande sciocche, si disse l’uomo che non era più un uomo. Dormiva, ancora. Questo era l’importante. Chiuse gli occhi, voltò sui suoi passi, e solo quando sentì l’aria della Sila schiaffeggiargli materna il volto, li riaprì. La promessa era stata, ancora una volta, mantenuta. Ora veniva la parte più dura. Camminò a lungo nella piena consapevolezza, quasi nella volontà, di perdersi, per quanto possa essere volontario tale atto. In un boschetto, che raggiunse senza sapere neppure come, si imbatté in ciò che non stava cercando ma che sapeva avrebbe trovato lui: un enorme sasso adagiato sul gretto di un rigagnolo d’acqua. In un luogo molto simile, in un tempo in cui le stelle erano altrove nel firmamento, aveva incontrato un monaco e con lui aveva discusso della parabola dei talenti. Era un tempo in cui non aveva ancora rinunciato a porsi delle domande, in cui si chiedeva il perché della sua esistenza, a quale dio o demone avrebbe dovuto rivolgere le proprie preghiere per avere una risposta. Soprattutto si chiedeva cosa avrebbe dovuto fare di tutto il tempo, infinito, che gli era stato concesso? La sua maledizione, la vita eterna, in eterna solitudine, era stata forse un dono?Se così era, lui aveva nascosto il proprio talento, per così dire, sotto terra. Era questo il motivo della costante ira divina che lo flagellava da eoni? Mentre a ciò pensava in quel tempo lontano, apparve il monaco, quasi come se fosse stato mandato da qualcuno a condividere i suoi pensieri. Nacque così la loro amicizia, che generò la promessa di vegliare sul Drago quando le ossa dell’uomo di chiesa non sarebbero state altro che polvere. Il dolore che genera l’assenza di un amico che non c’è più fa più paura della Bestia dell’Apocalisse. L’uomo, che non era più un uomo, si alzò dal masso ed iniziò a camminare verso la sua nuova meta, riflettendo, stanco, sulla responsabilità del talento e sulla memoria dell’amicizia.
Andrea Mazzotta
Ottobre, 2023